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EMIGRAZIONE, UN DRAMMA ANTICO

GIUSEPPE AGOZZINO

L'artista Giuseppe Agozzino aggiunge ai precedenti lavori dedicati ai derelitti cantati da De André di alcuni anni fa,  questa  raccolta di lavori sul drammatico problema degli immigrati. 

articolo critico di Nicolò D'Alessandro

Migranti - Mostra di Giuseppe Agozzino

Un secolo fa, il 6 agosto del 1906, il vapore Sirio con 2.000 emigranti diretti in America partiva dal porto di Genova. Vicino alle coste spagnole, tre giorni dopo, urtò accidentalmente contro uno scoglio che si trovava a circa 3 metri di profondità e cominciò un lento inabissamento. La nave impiegò venti giorni per affondare definitivamente ma la disorganizzazione e la paura presero il sopravvento e, secondo i giornali dell’epoca, finirono annegate oltre 700 persone. Il tragico naufragio del vapore Sirio è ricordato in una ballata molto diffusa in tutto il nord Italia:

“E da Genova il Sirio partivano
per l’America, varcare, varcare i confin.
Ed a bordo cantar si sentivano
tutti allegri del suo, del suo destin.
Urtò il Sirio un orribile scoglio
di tanta gente la mise, la misera fin.
Padri e madri bracciava i suoi figli
che si sparivano tra le onde, tra le onde del mar.
E tra loro un vescovo c’era dando a tutti
La sua be, la sua benedizion.”

Ancora da “Ci ragiono e canto”, regia di Dario Fo (1966) voglio ricordare un brano popolare, raccolto nel Casentino, che allude alle condizioni di:

“30 giorni di nave a vapore
che nell’America noi siamo arrivati
e nell’America che siamo arrivati
abbiam trovato né paglia e né fieno
abbiam dormito sul piano terreno
e come bestie abbiamo riposà.
America allegra e bella
tutti la chiamano l’America sorella.
Ci andaremo coi carri dei zingari
in America voglio andar.
E l’America l’è longa e l’è larga
l’è circondata di monti e di piani
ma con l’industria dei nostri italiani
abbiam fondato paesi e città.”

Queste due ballate scritte a distanza di sessanta anni l’una dall’altra, sottolineano che gli italiani sono andati in giro per il mondo poveri, ignoranti, malvisti come lo sono ora i migranti che vengono da noi. Alcuni di loro non sono mai arrivati ai luoghi di destinazione.

L’emigrazione italiana

Molti ricorderanno che la gran parte dell’emigrazione italiana deriva dall’antico Stato indipendente e sovrano del Regno delle Due Sicilie. Nel 1860, senza dichiarazione di guerra, il Regno piemontese dei Savoia occupa militarmente il Regno delle Due Sicilie. Seguono dieci anni di guerra civile, durante la quale vengono assassinati circa un milione tra Napoletani e Siciliani. L’intero patrimonio monetario è rapinato dalle casse dello Stato delle Due Sicilie e perfino i macchinari delle fabbriche napoletane sono portati al Nord dove in seguito sorgeranno le industrie del Piemonte, della Lombardia e della Liguria. La depressione economica causata dalle politiche colonizzatrici dell’”Italia unita” fece il resto. Per i meridionali l’unica via di salvezza rimase l’emigrazione.

Gli italiani, come è noto, sono stati protagonisti del più grande esodo migratorio della storia moderna conosciuta. A partire dal 1861, nell’arco di un secolo, sono state registrate più di ventiquattro milioni di partenze, un numero che equivale all’ammontare della popolazione italiana al momento dell’Unità. Rileggendo i dati statistici del periodo ci accorgiamo che si trattò di un esodo che interessò tutta la penisola, con priorità nel settentrione. Il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e il Piemonte, tra il 1876 e il 1900, espressero quasi il 50 per cento del fenomeno migratorio. La situazione si capovolse nei successivi venti anni. Il primato migratorio passò alle regioni meridionali: la Campania con 9.551.889 emigranti e la Sicilia con 1.126.513.

Negli anni 1890-1913, su dieci siciliani emigrati, nove si recarono negli Stati Uniti. Negli anni 1950- 60 dei 400.000 siciliani emigrati circa il 25 per cento preferì mete transoceaniche: Oceania, Africa e Asia. Gli altri si dispersero verso le regioni industrializzate del Centro Nord italiano, verso i paesi del Nord dell’Europa e verso i paesi non europei del bacino del Mediterraneo.

Siciliani in America

In origine Gibbet Island veniva usata dagli inglesi per confinarvi i pirati e poi come deposito di munizioni. A New York il centro d’accoglienza degli italiani ad Ellis Island, un isolotto di fronte a Manhattan, dal 1894 divenne stazione di smistamento per gli immigranti quando ne fu necessario il controllo per il massiccio afflusso. Ammassati negli edifici di Ellis Island o di altri porti come Boston, Baltimora o New Orleans gli immigrati, dopo settimane di viaggio, affrontavano l’esame, a carattere medico e amministrativo, dal cui esito dipendeva la possibilità di mettere piede sul suolo americano. La severità dei controlli fece ribattezzare l’isola della baia di New York come l’”Isola delle lacrime”. Vennero chieste cifre elevate per il trasporto dalla Sicilia. Numerosi furono gli episodi di gruppi di immigrati abbandonati in mare aperto o sulle coste. A questo proposito penso al racconto “Il lungo viaggio”di Leonardo Sciascia in Il Mare colore del vino in cui gli emigranti, fatti salire su una nave con destinazione americana vengono poi sbarcati sulla costa siciliana dopo aver circumnavigato per diversi giorni l’isola.

La “casa di prima accoglienza-prigione” rimase attiva fino al 1954, quando fu chiusa e abbandonata. Oggi è divenuta un museo, ma migliaia di italiani sono passati per la grande Sala di Registrazione a Ellis Island. ”Uccelli di passaggio” vennero definiti gli immigrati in America in quanto il loro intento era di andare solo per qualche anno: molti infatti lasciarono a casa mogli e bambini, convinti di ritornare.

Il fenomeno non si esaurisce

La questione dell’inserimento e delle trasformazioni culturali legata ai fenomeni migratori è un problema con il quale, non soltanto in Sicilia, bisogna fare i conti. Il fenomeno migratorio che si è sviluppato nel mondo negli ultimi vent’anni è determinato dalle profonde trasformazioni indotte dalla terza rivoluzione industriale in atto che sta spostando la popolazione mondiale verso i centri delle regioni protagoniste della nuova grande trasformazione. L’esistenza di un multiculturalismo e dell’intercultura costituiscono un problema che non è valutato in tutta la sua complessità. L’esperienza migratoria italiana presenta molti elementi comparabili all’attuale immigrazione e alle dinamiche dell’inserimento nella società di accoglienza. Non è semplice combattere gli stereotipi e i pregiudizi, le facili generalizzazioni che accompagnano tali fenomeni. Le merci possono entrare liberamente nel mercato; agli uomini che tentano disperatamente di “entrare” con la speranza di una vita migliore è negata invece la libera circolazione.

Le tempere di Giuseppe Agozzino

L’attenzione del pittore agrigentino, in queste tempere monocromatiche quasi di impianto sironiano, di gusto illustrativo, con prevalente colore “grigio topo” e la memoria di un bleu sporco, è rivolta al tema complesso ed ancora irrisolto dell’immigrazione.

Si conferma la passione civile in Giuseppe Agozzino che, ai precedenti lavori dedicati ai derelitti cantati da De André di alcuni anni fa, aggiunge quest’ultima matura raccolta di lavori dedicati al drammatico problema degli immigrati. Tutti extracomunitari, tutti ad Agrigento, ad aspettare il rimpatrio coatto. Alcune tavole mi riportano a quella sensibilità rappresentativa e popolaresca che ben conosco. Mi riferisco agli ex voto della Chiesa di San Calogero ad Agrigento. Tra queste tavolette votive ne ricordo con chiarezza alcune dedicate ai naufragi e ai miracolosi salvamenti del santo agrigentino amato dagli abitanti di Agrigento nonostante il patrono sia San Gerlando.

Un percorso narrativo

I soggetti scelti dal pittore agrigentino sono tratti da ritagli di giornali o da alcune fotografie di Lillo Rizzo che rappresentano il documento che registra una tragedia quotidiana.

Alcuni disegni ben rappresentano gli accerchiamenti dei barconi dei disperati di questi “viaggi dell’angoscia”. Salvagenti in rosso sono evidenziati attorno alle carrette del mare che trasportano gli immigrati, mentre imbarcano acqua.

In un altro disegno dall’alto scendono le forze dell’ordine, in bell’ordine, mentre da lontano arrivano anonimi clandestini al porto o nelle coste dell’agrigentino. Non conoscono sosta gli arrivi di immigrati sulle coste siciliane. Sempre nuovi sbarchi avvengono dopo estenuanti traversate.

Dai pescherecci si buttano in mare gli uomini per raggiungere, nuotando disperatamente, la condizione di clandestini senza futuro. Alcuni cadaverini, corpi morti galleggianti vagano nel mare di tempera bianca. Ci restituiscono con amara ironia la sensazione di “fare il morto” a pancia in su e a braccia distese, come siamo soliti vedere d’estate nelle stesse coste appaltate dall’industria turistica.

A proposito di morti come dimenticare che nel Natale del 1996, 286 migranti dallo Sri Lanka morirono nel Canale di Sicilia. Ci vollero anni solo perché i superstiti fossero creduti e intanto il mare restituiva resti umani che nessuno aveva interesse a considerare tali. In un’altra temperina altri clandestini riposano come possono avvoltolati nelle coperte e nei plaids. Di fatto sono reclusi in attesa di essere identificati nel Centro di Permanenza Temporanea S. Benedetto ad Agrigento. Li chiamano centri di permanenza temporanea e assistenza. E sono il segno di un diritto separato, punitivo, nei confronti degli immigrati.

Le frontiere non fermano chi ha fame. “Nessuno può fermare persone che hanno paura e che fuggono dalla fame e dalle guerre”. Il centro di accoglienza temporanea di Lampedusa, chiamata “l’isola degli arrivi” può ospitare solo una novantina di persone.  Continuano gli sbarchi nell’isola, ed i centri di permanenza sono stracolmi.

Gli immigrati avvistati al largo a bordo di barconi sono affiancati da motovedette della Guardia costiera e della Guardia di finanza, unità della Marina Militare le quali provvedono al loro trasbordo presso i centri di accoglienza di Lampedusa e infine a Porto Empedocle-Vigata.

Scene molto tristi appaiono agli occhi dei curiosi. Gli ospiti non hanno voce, hanno solo un volto. Regolarmente riprese dall’occhio implacabile delle telecamere e commentati dai giornalisti che ormai hanno esaurito tutti i possibili commenti, quasi sempre gli stessi e che stancamente ne riportano i volti anonimi.

L’artista evidenzia in una tavola un cimitero di pescherecci. Altri disgraziati nuotano verso la riva, sognando un futuro diverso. Mamme, come ultimo gesto disperato, buttano a mare i loro bambini per salvarli. Le foto segnaletiche diventano espressivi ritratti del dolore. In un disegno due torce elettriche illuminano la paura con fare inquisitorio.

Con impegno Agozzino racconta di questi rifugiati che affrontano un viaggio in mare in condizioni difficilissime e fuggono da paesi che non riconoscono i diritti umani e dove la popolazione soffre. Una saga, questa di Aguzzino, evocata per immagini, come quella espressa in versi del poeta americano Edgar Lee Masters che si proponeva di descrivere la vita umana raccontando le vicende di un microcosmo, il paesino di Spoon River. Ci troviamo, senza alcun dubbio, di fronte ad una bella mostra che mette l’accento su una storia feroce. Una storia davvero brutta poiché irrisolta.

I diritti negati nei centri di accoglienza

I centri di permanenza temporanea e assistenza sono stati istituiti in Italia nel 1998 con la legge Turco-Napolitano per la gestione del fenomeno migratorio. Previsti per gli immigrati trovati in condizioni irregolari sul territorio italiano e motivati dalla necessità di procedere ad accertamenti supplementari sull’identità e la nazionalità degli stranieri, limitano di fatto, pur se temporaneamente, la libertà dell’individuo anche nel caso in cui non sussistano reati penali commessi.

La legge del 1998 diventa successivamente la base su cui verrà fatta poggiare la nuova legge sull’immigrazione, proposta da Fini e Bossi. Essa prevede norme particolarmente vessatorie contro questi cittadini del mondo, definiti eufemisticamente “extracomunitari” (cioé fuori dalla comunità), costretti a lasciare i propri villaggi, paesi, città, per sopravvivere e per assicurare un avvenire migliore ai propri figli o familiari.

L’equazione “clandestino-criminale” farà un altro passo avanti. Si prolungherà la durata dell’internamento e le espulsioni diverranno più facili. Sostanzialmente i cittadini extra-comunitari, possono essere soggetti a custodia e privazione della libertà personale anche nel caso – puramente amministrativo – di non possedere un permesso di soggiorno.

I centri di permanenza temporanea sono divenuti, a tutti gli effetti, luoghi di detenzione militarizzati, veri e propri “non-luoghi”, quasi sconosciuti all’opinione pubblica, una terra di nessuno all’interno della quale i reclusi vagano in attesa, da un muro all’altro, da un corridoio all’altro per sessanta giorni, dentro metaforiche gabbie. Gabbie per uomini e donne giudicati colpevoli di aver varcato i confini per vedere come si vive in Europa, rei di non essere stati regolarizzati dai rispettivi datori di lavoro e di lavorare in nero, responsabili di aver perso la loro occupazione e di non averne trovata un’altra. Ma questi sfortunati cittadini somigliano tanto ai nostri connazionali che, per oltre un secolo sono emigrati dall’Italia fuggendo la miseria alla ricerca di un lavoro.

Non è difficile ritenere che “l’aumento degli sbarchi di clandestini sia la conseguenza di una politica di governo che non è riuscito a stipulare accordi bilaterali con i paesi da cui provengono i flussi migratori. Ma questi clandestini-criminali sono detenuti? Sono ricoverati? Sono nei fatti dei carcerati, figure spurie, in strutture diverse dalle carceri.

Un nuovo razzismo

Tutti sappiamo che milioni di persone sono costrette a migrare continuamente, spinte dall’ingiustizia, dalla guerra, dalla violenza verso i luoghi dove si accumulano le ricchezze.

La legge Bossi-Fini è stata scritta senza tenere conto che la storia marcia indisturbata verso la globalizzazione. Una scelta politica che vuole tutti schedati come se migrare fosse un crimine senza comprendere le singole storie di fuga e le loro ragioni individuali. Chissà se dire addio alla famiglia, alla propria casa e agli amici, partire per un paese straniero senza conoscerne la lingua e con pochissimi soldi, senza conoscere nessuno, significhi qualcosa per i legislatori. Il rischio è di legittimare un’immagine dello straniero come di un soggetto pericoloso o di un potenziale delinquente. Diventeranno questi uomini disperati i senza nome, gli invisibili, persone anonime pronte a sopravvivere con qualunque mezzo, schiavi delle raccolte stagionali di frutta e verdura e sfruttati ai distributori notturni di benzina, le ragazze destinate alla prostituzione? Clandestini disperati o criminali voluti da una società opulenta che finge di non capire!

Leggi la biografia dell'artista e critico d'arte Nicolò D'Alessandro Leggi la biografia dell'artista e critico d'arte
Nicolò d'Alessandro

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