Cenni Biografici
Parlando della sua arte
Marco Antonio Didu dice: "Per me l'astratto e il figurativo sono due
gambe dello stesso corpo. Il mistero dell’arte mi ha sempre
affascinato. L'arte è come il mistero della vita, della morte, anzi
è forse un mezzo per spiegarli e in un certo senso è come una
religione. Ritengo che l'arte sia allo stesso tempo un mistero e un
tentativo di dare un senso, una fusione di celeste e terreno, di
sacro e profano, di maschile e femminile, di soggettivo e oggettivo,
di pesante e leggero, di concavo e convesso, di pieno e vuoto, di
tutto e niente. Pur essendo un concetto volatile, astratto e
lontano, l'arte richiede un atteggiamento concreto e terreno di
ricerca assidua, abnegazione quotidiana, studio approfondito di
tutti coloro che ti hanno preceduto in questa strada che ti porta a
rompere il tuo muro del suono, cioè la scorza che separa ognuno di
noi dal trascendente, nel quale l'arte è compresa. È questo un fatto
soggettivo e oggettivo, ancora una volta una fusione di opposti che
ti trasporta in un’altra dimensione, quella artistica.
Lacerare
questa scorza è una lotta che ogni artista o potenziale tale deve
riuscire a portare a termine, è la prima vera opera d’arte. Le
difficoltà sono enormi, il percorso è lungo, arduo, può capitare di
sentire il carico troppo pesante, la via troppo in salita, le
energie mancare. Si affaccia allora il nemico peggiore, che ti
spinge a rimandare, a pensare ad altro, magari a qualcosa di meno
impegnativo e introspettivo, è la pigrizia, l’indolenza. Debolezze
che in passato non mi hanno fatto prendere troppo sul serio certe
modeste doti, per scegliere altre strade, più concrete, ma
dall’orizzonte ristretto. Fortunatamente l’indolenza non ha vinto
sempre e così ho fatto buone letture e visite a mostre e musei.
Dunque ho continuato a riempire l'anima e l’intelletto di concetti,
figure, linee e colori, fino a quando è stato naturale cercare la
concreta pratica artistica, riducendo l’indolenza a null’altro che
un peccato di gioventù. All’inizio è stato un percorso lineare e
tortuoso allo stesso tempo, soprattutto direi solitario, nel senso
che mai nessuno mi ha insegnato cos’è un punto di fuga, come si
disegna un nudo o come si mischiano e si giustappongono i colori
(credo che questo, in qualche quadro degli inizi, si noti). Dunque
sono un autodidatta, ma allo stesso tempo no, e anche qui mi ritrovo
in quella contraddizione tipica di ogni cosa artistica, quasi a
voler rispecchiare in piccolo gli universali temi dell’arte, sempre
grandi, trascendenti. Proprio in quanto tali, questi temi non
possono non avere zone chiare e scure, zone in luce e altre in
ombra, non possono alla fine non essere contraddittori. Più o meno
verso i vent’anni, sfogliando un libro d’arte mi imbattei in un
disegno di David, una donna piangente che si asciuga il volto con la
veste, così facendo coprendosi il volto. Ero affascinato dalle
pieghe di quei vestiti, dalla sicurezza di quei tratti, allora
prendo il vecchio album di applicazioni tecniche delle medie, con
ancora qualche foglio lindo, e a matita cerco di riprodurre quelle
affascinanti linee, ma l’entusiasmo è tale che buco il foglio. Dopo
aver comprato dei fogli da disegno un po’ più spessi riprovo ad
interpretare i morbidi panneggi, l’atteggiamento sofferente della
donna. Sento un trasporto strano, indescrivibile, una rivelazione,
quasi come se i maestri del passato volessero in qualche modo
cercare di comunicarmi qualcosa, o almeno così pensavo, un po’ da
megalomane. Poi continuai a sfogliare quel libro, ansioso di
imbattermi in qualche altro disegno che potesse dominarmi col suo
fascino, e lo trovai in Durer, il ritratto della madre. Anche quei
tratti mi rapirono, e religiosamente li riprodussi. Vennero poi
altri disegni, di artisti più o meno famosi, di epoche più o meno
lontane, anche contemporanei, che riproducevo senza sceglierli
razionalmente, senza un ordine logico, stilistico o temporale. La
cosa importante era il tratto particolare, una piega interessante
delle vesti, piuttosto che un espressione generale del viso, o la
linea del naso. Mi interessava soprattutto la ritrattistica. Fu un
periodo fecondo, il mio scopo era di fare un disegno al giorno.
Passavo da Velazquez a Kokoshka, da Van Gogh e Fra Galgario, da Goya
a Schlemmer, dai Carracci a Modigliani, e poi Goltzius, Holbein,
Matisse. È stato solo in un secondo tempo, e dopo un lungo
riflettere, che ho iniziato a dipingere, sempre riproducendo opere
dei maestri, Tiziano, Mantegna, Giotto, Michelangelo, per poi
tentare con quelli dallo stile un po’ più difficile, Leonardo,
Vermeer, Caravaggio. Il passo successivo è stata la riproduzione in
pittura di alcune statue e bassorilievi famosi, è stato il periodo
della Pietà dipinta, del bacco dipinto, di un quadro di donna con
bambini ispirato alla Madonna della scala. Senza rendermene conto
ripercorrevo passo passo il percorso degli apprendisti nelle
botteghe d’arte del passato. C'è stato un periodo in cui sentivo
l'esigenza di dipingere in astratto. Praticamente, al termine di
ogni quadro figurativo l'attenzione si spostava su delle linee
inconsuete, difficili da interpretare a primo acchito. Più
precisamente era come se volessi usare questi due modi di
espressione, uno più direttamente riconoscibile e l'altro più
nascosto, come fossero due gambe di uno stesso corpo che si muovono
in sincronia e sinergia per permettere il cammino. L’ultima fase
dell’apprendistato, se così si può chiamare, è stata quella di
portare in pittura disegni che i maestri non avevano mai dipinto,
come il cartone di S. Anna di Leonardo. Lì è successo qualcosa.
Mentre lo dipingevo ho sentito l’esigenza di staccarmi da quel tipo
di riproduzione che cominciava a diventare pedissequa, di aggiungere
qualcosa di mio. Fu così che un ormai stanco tentativo di copia
divenne “un mondo non basta", capostipite della serie di quadri "actung,
achtung, Gott ist mit uns!”, un quadro che sentivo pienamente
appartenermi. Non che prima non ne avessi dipinto di quadri basati
su idee esclusivamente personali, ma non mi avevano soddisfatto del
tutto, mancava qualcosa. Mi sentivo per la prima volta come un
uccellino finalmente volato fuori dal nido. Ma tanta libertà può
dare alla testa, per cui tornò, apparentemente senza ragione, la
voglia di interessarmi ad altro, al lavoro remunerativo quotidiano,
all‘applicazione nello studio in corsi di aggiornamento
professionale. È stato un ritorno agli orizzonti ristretti, che per
quattro anni mi ha fatto dipingere poco. Finito quest'ultimo
periodo, qualcuno chiese un altro falso d'autore, il S. Michele e il
drago di Giotto. Lo riprodussi quasi controvoglia, in fondo non mi
ritengo un copista vero e proprio, e poi ritenevo finito per sempre
il periodo delle copie. Però mi è servito a riprendere confidenza
con i pennelli, oltre che a fornirmi lo spunto per un'altra serie di
quadri, quella del S. Michele bambino. Adesso sento che l’ora delle
incertezze e delle titubanze se ne sta andando insieme alla mia
giovinezza, per lasciare il posto, anche in arte, alle sicurezze
della maturità. Ho ripreso i pennelli per non smettere più, se Dio
(e io...) vuole".
Anna Maria Guarnieri
Gallerie d'Arte
Critici d'Arte
Ditte Belle Arti
Musei e Pinacoteche
Musei Europa Musei
USA Arte
Storia dell'Arte
Grandi Pittori
Mostre Pittura
Correnti Arte
Città d'Arte
Glossario arte Concorso
pittura
Annunci arte Eventi
e mostre pittura Pittura
e artisti pittori in mostra
CommentArte
Guestbook
Proponi & Sostieni Le
tue pagine
Le vostre domande - F.A.Q.
Consigli
Aumenta i tuoi visitatori Non
ho un mio sito Web
Informativa
Iscrizione Concorso
Iscrizione Dinamica
Iscrizione Gratuita Pittori
Iscrizione Gallerie
Iscrizione Critici
Iscrizione Belle Arti
Iscrizione Mini Sito
Iscrizione Spazi Espositivi
Iscrizione Contenuti
Pagine per Iscritti
|
|